Le interviste di B&P: Professor Franco Combi, il medico dello sport

Continuiamo le interviste di B&P nel 2016 assieme al professor Franco Combi. Nato a Candia Lomellina nel 1950, laureato…

in medicina e chirurgia a Pavia, specializzatosi in fisiatria, reumatologia e medicina dello sport a Milano, docente presso la facoltà di medicina di varie università tra cui Milano, Pavia, Roma e Lugano, è da sempre nel mondo dello sport: dal 1977 al 2004 responsabile medico della società sportiva SNAM (sezione atletica e nuoto), 4 anni con la pallavolo, dal 1988 fisiatra della squadra nazionale della Federazione Italiana di Atletica Leggera, dal 1995 al 2000 consulente fisiatra della Olimpia Pallacanestro, dal 1996 al 2000 consulente fisiatra della Juventus, dal 2000 al 2014 medico sociale della Inter. Da settembre 2016 è il medico sociale del Sassuolo.

Abbiamo chiesto a Franco Combi se fosse stato disponibile ad una intervista “diversa”, al di fuori del mondo sportivo che ben conosce. Detto fatto. Con uno slalom tra i suoi molteplici impegni, abbiamo così organizzato l’incontro presso i nostri uffici di via Bianca di Savoia a Milano.

Sebbene Franco Combi vanti un pedigree prestigioso e di assoluto rilievo, è rimasto un uomo sobrio negli atteggiamenti, schietto nell’esprimersi, intelligentemente umile, legato a forti valori umani, frutto, in buona parte, di una cultura che ha storici ancoraggi familiari nel mondo contadino. Non a caso, nel tempo libero – si fa per dire – si occupa della coltivazione del riso.

Alle domande Franco Combi ha risposto in modo diretto oppure facendo riferimento al suo vissuto o citando alcuni episodi, così da stimolare riflessioni a coloro che, ben più di lui, sono vicini al mondo manageriale. E’ così lasciato al lettore il compito di “specchiarsi” nelle sue parole e trovare riscontri con le proprie esperienze, per esempio in tema di gestione e motivazione dei talenti, di dinamiche di gruppo, di adesione a determinati valori, di coerenza dei comportamenti, di passione per il proprio lavoro.

Come prima ricordato, Franco Combi vive in un mondo, quello dello sport, in cui oggi la ricerca tecnologica più sofisticata ed avanzata convive con la pratica sportiva che ha radici lontanissime. Abbiamo così voluto introdurre l’intervista con il quadro “Seminatore al tramonto”, olio su tela dipinto nel 1888 da Vincent Van Gogh ed ambientato in uno scenario agreste che, come prima ricordato, è caro a Franco Combi. Anche in questo quadro convivono elementi diversi: da un lato la tradizionalità secolare della figura del seminatore, dall’ altro l’originalità dei colori di cielo e terra.

Lasciamo ora spazio all’intervista.

“Lo sport non costruisce la personalità. La rivela”: così scriveva Heywood Hale Brown, attore e giornalista sportivo americano scomparso nel 2001. Lei è d’accordo con questa affermazione? Oppure il rapporto tra attività sportiva e sviluppo della personalità ha sfumature più ampie?

 Sono d’accordo con Heywood Hale Brown se la personalità viene intesa come tratto naturale di una persona che si modella progressivamente nel corso dell’esistenza. Il processo di “modellatura”, fatto di successi e di esperienze positive ma anche di ferite e difficoltà, è poi quello che forma definitivamente la personalità.

Il talento è invece una dote particolare in cui inizialmente la genetica ricopre un ruolo importante. Il talento è un po’ come la fortuna e viene distribuito in modo “spaiato”: chi lo raccoglie e lo valorizza spesso impegnandosi e lavorando più degli altri e chi lo trascura e lo sperpera. Il talento è colui che ha il “colpo di coda”, risolutivo in situazioni da cui pare non sia possibile uscire. Non dimentichiamo che nello sport la maggior parte dei veri talenti non possiede solo una “intelligenza spontanea”, che non è tanto frutto di una costruzione culturale, ma anche una straordinaria forza di carattere. Al riguardo, penso a Gianmarco Tamberi, il nostro saltatore in alto, che ho seguito dopo l’incidente occorsogli a Montecarlo il 15 luglio 2016. Gianmarco stava vivendo un momento magico ed era in forma straordinaria, pronto ad affrontare alla grande le olimpiadi brasiliane.

Un banale infortunio lo ha messo fuori gioco: una mazzata. Solo se si ha una straordinaria forza d’animo si riesce ad andare avanti ed a porsi nuovamente obiettivi ambiziosi e molto sfidanti.

Per 14 anni Lei è stato medico sociale della società calcistica Inter: ruolo delicato e di grande responsabilità, provenendo da altre importanti esperienze. L’ingresso in una nuova organizzazione è un passo comune a tante persone, manager in particolare. Lei come si è comportato e cosa suggerirebbe? Quanto fondamentali sono le competenze e quanto le dinamiche e lo stile relazionali?

L’ingresso all’Inter non è stato facile. Prima di essere chiamato dal Presidente Massimo Moratti e di accettare l’incarico avevo rifiutato per ben due volte, in quanto avevo degli impegni ospedalieri che mi assorbivano completamente e che non potevo trascurare. All’Inter sono entrato inizialmente per le mie competenze mediche specialistiche: diversi giocatori avevano allora problemi muscolari e tendinei. Io provenivo dall’atletica, mondo a cui sono legato da oltre 40 anni, ed avevo maturato una specifica esperienza proprio nella cura dei problemi muscolari e tendinei. Quando si entra in una organizzazione penso che per farsi conoscere sia importante in primis svolgere bene il proprio lavoro, con competenza e coscienza. Ma poi non basta. Occorre infatti curare le relazioni su più piani, cominciando dalle persone che, con incarichi diversi, operano all’interno di una struttura composta da 220 atleti (squadre giovanili comprese) come l’Inter, con le quali è fondamentale lavorare in modo sintonico. Altro piano relazionale fondamentale è quello che si deve instaurare con il Presidente ed il Direttore Generale: un rapporto franco e sincero con due figure di riferimento che sono fuori dalla “quotidianità della vita calcistica”. Un rapporto di trasparenza e di libertà che consente di evitare di appiattirsi sull’ ambiente.

Negli ultimi vent’anni la medicina dello sport ha fatto passi da gigante, in particolare per merito della diagnostica per immagini, facendo sì che da un lato la durata della vita agonistica dell’atleta si allungasse, dall’altro che il recupero dopo un infortunio fosse più certo e più rapido. Oggi il “motore complessivo” di un atleta – fatto di articolazioni, ginocchia, caviglie, colonna vertebrale ma anche di tendini e muscolatura (“le cinghie di trasmissione”) – consente ad un allenatore di impostare percorsi di miglioramento, schemi e tattiche di gioco in cui la velocità si calcola in frazioni di secondo, anche nel calcio. Come sono lontani i tempi in cui giocavano Benito Lorenzi (il mitico “Veleno”) e Michel Platini …

Il medico sociale è responsabile di salvaguardare la salute degli atleti ed è essenziale ricordare che il medico e il presidente della squadra sono gli unici che possono cadere in un’azione di rivalsa civile o penale. “Il medico non è dell’allenatore, ma della società”, ricordò Lei in un’intervista all’inizio del 2015. Come si gestisce il rapporto con l’allenatore che ha obiettivi di risultato? Quali rapporti ha il medico sociale con i giocatori?

Se si rende conto che la struttura della società lavora con lui e per lui, l’allenatore si tranquillizza e si può assieme fare un gran bel lavoro di squadra. Non è però facile trovare un’organizzazione che ti dia tranquillità: io nella mia carriera sono stato fortunato. Quanto detto prima spiega perché soprattutto in Italia l’allenatore tenda a portare al proprio seguito medico e massaggiatori di sua conoscenza e fiducia: utili antenne per cogliere gli umori di un ambiente nuovo e per non sentirsi solo. Io personalmente non condivido questo modus operandi, che ha in sé il germe della “parrocchietta”.

I rapporti umani tra medico sociale e giocatori sono di grande importanza. Per me, ancor oggi, Ivan Cordoba e Cristian Chivu sono dei “figli”, Walter Samuel un “fratello minore”: persone di grande correttezza, lealtà e serietà professionale, “ubbidienti” (per così dire) anche se talora borbottavano …. In particolare gli atleti stranieri sono in fondo delle persone sì coperte d’oro ma isolate – anche se talora circondate per strada da tifosi – che vengono prese in considerazione per una finalità specifica (giocare e possibilmente vincere). Il medico sociale può svolgere un ruolo importante nell’essere a loro vicino, senza che ciò comporti diventare un “amicone”: mai confondere i ruoli. Nei quattordici anni trascorsi all’Inter penso di essere uscito a cena con un giocatore un paio di volte. Ma con Samuel che vive oggi a Zurigo ci sentiamo al telefono; con la famiglia ed i genitori di Cordoba ho mantenuto rapporti cordialissimi.

Il mondo dello sport è una “palestra” fantastica per studiare da vicino le dinamiche del lavoro di squadra e la leadership. L’allenatore è un leader, ma anche tanti atleti lo sono: lei ne ha conosciuti molti nel corso della sua carriera. Come si intrecciano le diverse leadership e il lavoro di squadra? Il medico sociale è spettatore o è anche attore in queste dinamiche, e se sì, in che modo?

Ritengo che la dinamica tra più leader – ad esempio allenatore e giocatori – possa generare un clima positivo e costruttivo se alla base c’è il reciproco rispetto, che per me è il valore fondante i rapporti interpersonali, il “faro” che illumina la strada anche nei momenti difficili, evitando che si inciampi. All’interno di una squadra l’allenatore non solo deve gestire la talentuosità dei singoli ma anche la convivenza tra “sottogruppi” (i “brasiliani”, gli “argentini”, ecc. …). Come sappiamo esistono diversi stili di leadership: José Mourinho, tendenzialmente direttivo nel suo interagire con gli altri e molto orientato al raggiungimento degli obiettivi, mi disse: “Franco, è importante arrivare ai quarti di finale, poi non c’è più bisogno di mettere d’accordo nessuno”. In effetti quanto più ci si avvicina al raggiungimento dell’obiettivo, tanto più l’intero ambiente societario, anche gli amministrativi (!), si coagula. Questa è stata la mia esperienza.

Lo sport non è solo divertimento ma è anche impegno e fatica, e questo non solo a livello professionistico, come lo è pure il raggiungimento di determinati obiettivi in azienda. E’ possibile che un manager possa “allenarsi” per affrontare sfide che si preannunciano sempre più ardue? Quali suggerimenti potrebbe dare? Quali sono i rischi da evitare?

I giocatori sanno che con l’impegno ed il duro lavoro possono migliorare: purtroppo alcuni anche molto talentuosi si perdono per strada, facendo una vita disordinata. Non solo, i giocatori oggi sanno che con l’aiuto della medicina dello sport la loro vita agonistica non solo è più “vivibile” ma sia allunga in modo significativo (Francesco Totti ne è un esempio). Anche l’allenatore fa fatica, chiaramente sotto il profilo psicologico. Ma la fatica può essere ben sopportata se si riesce a far sì che i giocatori possano anche divertirsi, ad esempio durante l’allenamento. E questo è merito dell’allenatore. Io ho conosciuto numerosi giocatori che, stanchi al termine dell’allenamento, erano quasi riluttanti a rientrare nello spogliatoio perché si stavano “divertendo” giocando al pallone, come succedeva nel passato quando si giocava al pallone all’oratorio e non si voleva mai smettere nonostante il sacerdote dicesse che era ora di andare tutti a casa. Se uno si diverte si concentra di più e performa meglio, come – penso – succede a scuola, e mi auguro anche nel mondo del lavoro. Io ho avuto la fortuna di fare un lavoro che mi piace e che mi diverte, il che non vuol dire “in assenza di difficoltà”. Nel passato ho abbandonato una carriera professionale canonica all’interno di strutture ospedaliere prestigiose e ho rinunciato ad un lavoro stabile per accettarne uno che se va bene può essere rinnovato ogni due anni. Dopo il primo anno ho capito però che questa era la mia nuova strada. Personalmente ritengo che, chiaramente a fronte di risultati positivi, la stabilità nel tempo del ruolo del medico sociale sia premiante soprattutto per la società: il ricambio troppo frequente difficilmente può assicurare qualità e costanza di risultati. A mio parere il cambiamento è positivo solo se le esperienze professionali hanno avuto tempo e modo di consolidarsi: in un’attività in cui contano soprattutto le persone il tempo non può essere “compresso” più di tanto.

“Quando le cose vanno male, molte persone vivono in una casa senza specchi, dove le colpe sono sempre degli altri” e “Io non accetterò mai di non dire la verità al giocatore”: sono sue parole tratte da un’intervista. Responsabilità e verità sono per tutti parole “faticose” ed impegnative: nel mondo dello sport, come in quello aziendale – basta al riguardo leggere i quotidiani – si cercano talvolta scorciatoie, poiché sono termini che hanno un “prezzo”. A dei manager, e soprattutto ai più giovani, cosa consiglierebbe? Possono coesistere voglia di far carriera e coerenza e trasparenza dei comportamenti?

Più che dare dei consigli, preferisco dire quello che penso. Responsabilità e verità sono per me concetti assoluti e indiscutibili, che guidano il mio modus operandi, anche se in certi casi si paga un prezzo salato, con un corollario doloroso di rancori infiniti. La coerenza procura in certi casi notti insonni e anche momenti di grande tensione, ma alla fine la forza di avere la coscienza pulita – espressione presente sì nel vocabolario della lingua italiana ma sempre più assente nei discorsi e soprattutto nei comportamenti – ti fa andare avanti a testa alta.

Fare un lavoro che piace è un privilegio oggi riservato, temo, a pochi, ma non sono sempre rose e fiori: la strada professionale, da affrontare sempre con entusiasmo e passione, è fatta anche di dispiaceri, delusioni, attimi di sconforto. Non bisogna mai dimenticarlo. In ogni caso il mio lavoro è un qualcosa di affascinante. Così a 66 anni ho accettato – molti mi hanno dato del matto – il ruolo di medico sociale del Sassuolo: una realtà calcistica che seppur giovane e bisognosa di crescere sotto il profilo organizzativo agisce come un’azienda, con alla guida due chiari punti di riferimento: il Presidente e il Direttore Generale. Si tratta di un progetto stimolante da affrontare con impegno e “divertimento”, senza farsi travolgere dalla fretta.

In conclusione una domanda relativa al suo percorso professionale: laureato in medicina e chirurgia, Lei si è progressivamente specializzato in fisiatria, in reumatologia e in medicina dello sport. Questa sua scelta è stata influenzata anche da qualche maestro, da una persona che è stato un insegnante, ossia qualcuno che mette un segno nella personalità degli altri? Secondo Lei è il maestro che scegli l’allievo oppure, come affermò il prof. Nicola Dioguardi nell’intervista che mesi addietro aprì “Le interviste di B&P”, è l’allievo che sceglie il maestro? Il “maestro” è ancora una figura attuale, soprattutto per i giovani? Oppure è del tutto superata e desueta?

In primis il mio pensiero va al professor Ivano Colombo, grandissimo fisiatra, mio maestro e secondo padre: uomo severo ma nel contempo affettuoso. Quando passai all’ospedale Bassini dopo sette anni trascorsi a Niguarda, il professor Colombo non mi parlò per due anni: era un suo modo assai originale di mostrami affetto, tant’è che mi disse poi che avevo fatto bene a tagliare il “cordone ombelicale” che mi legava a lui. Anche il professor Luciano Silvello, grande ortopedico, fu per me un altro importante maestro. Sono d’accordo con quanto affermato dal professor Nicola Dioguardi: è l’allievo che sceglie il maestro e non viceversa. Io venni a Milano in quanto a Pavia non c’era l’insegnamento di fisiatria e volli specializzarmi con il professor Colombo, che tra l’altro mi aveva curato in gioventù. Scegliere e non essere scelto ha anche un altro aspetto positivo non del tutto trascurabile sotto il profilo umano: consente all’allievo di “sopportare” con maggior “scioltezza” una persona spesso dal carattere molto forte e difficile, non sempre votata ad insegnare, a cui talora bisogna con garbo ed intelligenza “rubare” il mestiere.

Vorrei concludere infine con una riflessione che a prima vista potrebbe apparire lontana dagli argomenti affrontati in questa intervista. Ritengo che anche nella vita lavorativa ci siano momenti ed emozioni di varia natura, chiaramente non sempre positivi, che talora si “mescolano” assieme, creando poi un mosaico che prima non esisteva. Così mi è capitato e capita tuttora che diversi elementi o fatti anche molto semplici, ciascuno dei quali ha però la propria peculiarità (ad esempio, una frase, una telefonata, un gesto) si mettano assieme quasi per magia, creando un momento emozionante: questa per me è poesia. Poesia vissuta, non scritta. Poesia che ciascuno può scoprire e, volendo, può condividere, andando oltre a quelle che sono le tradizionali e spesso aride logiche del lavoro e delle dinamiche relazionali. Forse ciò succede perché sono appassionato del mio lavoro, straordinariamente appassionato. Al riguardo, vorrei augurare a tutti quanti hanno avuto la pazienza di leggere questa intervista di poter provare sensazioni simili nel corso della loro esistenza.